Se vogliamo parlare di marinai, scordiamoci quei candidi grattacieli coricati sulle acque che sono le moderne navi da crociera
Scordiamoci il “Concordia” e scordiamoci gli yacht di Mykonos o della Costa Smeralda, abbaglianti di vernici sempre rinfrescate e di legni e ottoni immuni dalla salsedine: quelli, agli occhi di un vero marinaio, non sarebbero che ipocriti frammenti di terraferma.
Le navi dei veri marinai sono perlopiù carrette rugginose e maleodoranti, che l’onda lunga minaccia di ribaltare, i loro spazi sono angusti e bui; e le abita una promiscua fauna, una legione straniera di uomini, di donne e di animali piovuta a caso da ogni angolo della terra: minuscole e arrancanti arche di Noè a cui nessuna colomba riporta volando promesse di arcobaleni e di terraferma, a cui nessuno promette “profumi d’arancio”.
Il mare di molti nostri marinai ha, spesso, cupe tonalità plumbee, ha onde fredde e infuriate, ha i grigi delle nebbie, quando non trascolora in lagune fangose coronate di piatte coste ammalate.
Eppure, a un marinaio che abbia navigato per decenni su rotte interminabili, sarà pur accaduto di vedere i tripudi cromatici dei tramonti tropicali, il candore delle risacche sulle barriere dei coralli, la festosa livrea mediterranea di cobalti e smeraldi scintillanti sotto il sole sovrano: quello, insomma, che ammalia noi, il cui passo, a terra, non vacilla.
Via tutto questo: il mare è un’altra cosa. Il mare è un archetipo, sempre cangiante e sempre uguale come spesso sono gli archetipi. E’ la vita stessa, con la sua indifferenza, i suoi pericoli, le sue sirene, le sue crudeltà, che puoi rifiutare solo al prezzo di rinunciare a vivere. Il mare con il sole che illumina dominando, è primordiale purezza intellettuale e sensuale, etica ed estetica. E’ garanzia dell’ inesistenza del peccato.
Agli orizzonti infiniti, alle tante meraviglie del mare e alle fantasie di chi lo solca, deve aggiungersi la pena del marinaio, la cui vita è pur sempre lavoro incessante, pericolo, fatica, disciplina. Ognuno è separato da un compito: il nostromo, il motorista, il mozzo, l’apprendista. Pure nella surreale masnada di un misero peschereccio Tunisino si distingue una suddivisione di compiti marinareschi. E ciascuno, non senza errori, confusioni e goffaggini, conosce le manovre, le attrezzature e gli strumenti che, per uso marinaro, si indicano con l’unico lessico ammesso a bordo. Doveri assoluti, come quelli di un soldato, perché al marinaio, è dato, connaturato si può dire, di violare tutti i codici umani e divini, ma non quello del mare.
Ecco perché, quando leggo in questi giorni delle sue vicende, egregio comandante Schettino, non riesco a trattenere una rabbia quasi ingiustificata; che posso razionalizzare solo lasciando emergere quel poco di spirito marinaresco ancora nascosto in me. Non tanto per gli errori, che ognuno può commettere, anche nella più giustificabile buona fede o per la sbadataggine di un momento, ma per aver tradito l’unico codice d’onore a cui un comandante, un marinaio, deve tener fede. Mi viene da pensare alle centinaia e centinaia di anonimi, poco importa la stazza delle loro imbarcazioni, che, per onorare quel codice, hanno dato la vita. Non per eroismo, ma per amore. Questi uomini sono marinai, egregio comandante Schettino. Lei non è né uomo, né marinaio.
Edoardo Morello