Essendo vittime dell’idea, non sana, della giovinezza da “trattenere” a tutti i costi, l’età “abbondante” viene oramai vissuta in maniera negativa, pessimista
I valori dell’estetica e del denaro sono purtroppo quelli preponderanti. Come ha affermato recentemente una escort, coinvolta in una delle tante questioni “calde” del nostro Paese, “la bellezza è un valore e va difeso anche arrivando a vendere la propria madre”.
Se questo è il quadro, la vecchiaia, quella che qui vogliamo chiamare l’”età abbondante”, appare inutile e il sentore della morte ancora più prossimo. Siamo lontani dall’idea che, nella ciclicità del tempo che passa, chi aveva vissuto di più sapeva di più; la vecchiaia depositaria del sapere. Ora l’anziano non può trasmettere la propria esperienza, non ai giovani che devono fare da sé la propria. Parlare troppo della storia e dei vissuti personali può annoiare; esprimere la propria commozione o emotività può far passare l’anziano per affetto da depressione ineluttabile; se è vivace e compagnone viene tacciato per colui che non accetta la sua condizione; stare troppo da una parte può essere letto come egoismo senile; partecipare troppo come prepotenza e saccenza.
In queste nostre riflessioni l’invecchiamento lo si vuole vedere come una delle fasi del ciclo di vita (si legga EriK Erikson) che ci vede impegnati in una danza con il nostro identificarci. Sin da piccoli entriamo in contatto con una alterazione fisica e psichica, dando al concetto il senso di diventare alter, un altro. Non esiste, dunque, la vecchiaia in assoluto, non è uno stato uniforme. Essa è legata a differenti variabili in base alle esperienze ed ai tempi che sono stati dati alla vita personale. La vedovanza, l’allontanamento del figlio, l’arrivo di un nipote, una malattia, il pensionamento o quant’altro possono andare ad incidere sul vissuto della propria condizione trasformando l’anziano in “vecchio”. Il tutto viene sviluppato all’interno di un contesto culturale e relazionale anch’esso in continua evoluzione, in continuo movimento. Affrontare cambiamenti o perdite spinge il bisogno di sicurezza e le dinamiche della dipendenza a prendere forma nello spazio emotivo della persona. Soprattutto di fronte a malattie particolarmente devastanti o di fronte ad un lutto o ad un cambiamento di ruolo familiare o sociale (il pensionato, ad esempio) l’anziano entra nella più assoluta discrepanza e difficoltà nel dare continuità alla percezione di sé tra quello che era, quello che si aspettava che sarebbe stato e quello che è. Tutto questo porta a sviluppare una forte esigenza di dipendenza, di protezione; una difficoltà a reinterpretarsi in ruoli ed esperienze differenti. Il tutto è però fortemente legato al come si è vissuto ed alla cultura di appartenenza che possono portare ad invecchiare pensando o che qualcuno (i figli in particolare o anche la società) debbano prendersi cura dei propri vari “dolori” fisici ed emotivi, oppure che la vecchiaia possa essere l’opportunità per vivere attivamente e non in dipendenza la propria esperienza di vita con gli anni “abbondanti”. E’ naturale che, per mantenere giovane la propria mente ed in forma adeguata il proprio corpo, bisogna credere che quando si sarà anziani non si dovrà fare solo i nonni o i malati d’età. E’ infatti importante distinguere tra l’anziano che vive attivamente la propria vita ed il vecchio che ha una vita scadente per cui ogni giorno è uguale all’altro, niente è interessante, la mente è stanca e non sente la necessità di usarla. Tanto di rispetto per i primi, meno accettazione per i secondi. Ci sono tanti anziani che amano fortemente i propri nipoti ma il loro mondo non ruota attorno a questi ultimi. Ci sono vecchi che sono contenti di riempire completamente la propria vita nel ruolo di nonno o nonna. Occuparsi dei nipoti a tempo pieno significa non avere molto altro a cui dedicarsi, non sentire la spinta ad avere altro a cui dare il proprio spazio mentale e temporale.
Due differenti esemplificazioni del concetto di anziano a fronte del concetto di vecchio possono aiutarci a comprendere come a tempo debito dobbiamo portare rispetto nei confronti di quello che saremo sin dalla età giovane o adulta che sia.
Vincenzo e Marta hanno l’uno ottanta anni l’altra settantasei. Sono sposati da quasi cinquanta anni. Probabilmente si sono voluti anche molto bene ma non hanno mai dato il senso di aver vissuto un sentimento amoroso molto forte. Lei figlia di “buona famiglia” del paese di appartenenza; lui figlio di gente meno abbiente. La loro storia si sviluppa in un sud in cui la donna, soprattutto una “signora”, deve essere mantenuta dal marito dovendosi solo dedicare alla famiglia e alla gestione della casa. Marta diventa, grazie a Vincenzo, sempre più una principessa, arrivando ad uscire solo pochissime volte all’anno, avendo notizie del mondo esterno esclusivamente attraverso il marito, la televisione o uno dei loro tre figli, l’unico rimasto a vivere in un paese vicino. Gli altri due, un uomo ora di 40 anni e una donna di 42, vivono nel nord e nel centro Italia.
Vincenzo e Marta sono due persone che, dalla descrizione dei figli e dall’accenno della loro storia, sono “vecchi” da almeno vent’anni. Si evidenzia in loro una idea della vita come molto chiusa, isolata, fatta solo di pochissimi rapporti sviluppati soprattutto per telefono. Marta ha da tanti anni difficoltà nella locomozione. Il notevole peso ha rovinato la sua struttura ossea. Vincenzo, pur essendo anch’esso in sovrappeso da sempre, ha una vita attiva, continua ad occuparsi di tutte le pratiche burocratiche. Sino a pochi anni fa in prima persona seguiva gli operai della sua ditta o i contadini che si occupavano delle terre che la moglie possiede. Tutto crolla nel momento in cui Vincenzo si ammala. Gli equilibri saltano. Scatta la pretesa che i tre figli, soprattutto la figlia, si trasferiscano al paese in cui Marta e Vincenzo vivono e ciò in virtù dell’esigenza che qualcuno si occupi di loro, della loro salute, degli affari lavorativi ed amministrativi vari. Scatta il tiro alla fune tra loro e la figlia che propone che si trasferiscano da lei. Non intendono muoversi dalla loro casa, semmai devono essere i figli a stare accanto a loro. I rapporti tra questi ultimi si alterano, ognuno ha bisogno di riprendere in mano la propria vita ma le spinte da parte dei genitori a prendersi totale cura dei loro “vecchi” li rende nervosi, stanchi, disorientati di fronte ai tanti sensi di colpa che vengono in loro attivati. E’la figlia a rivolgersi alla terapia. E’ fortemente in crisi nell’affrontare queste dinamiche colpevolizzanti e accusatorie di essere abbandonica e disinteressata ai bisogni dei propri genitori.
Persone dipendenti che si trascinano da anni nello scandire un vivere sempre uguale mutato solo dagli eventi negativi.
Francesca e Oreste hanno entrambi settantotto anni. Sono sposati da poco più di quaranta anni, hanno due figli in Francia. Vivono in un paesino di montagna del nord Italia. Lei casalinga, lui un operaio in pensione. Hanno sempre fatto tutto insieme. Hanno cercato sin dai primi anni di matrimonio di mettere su un progetto di vita in cui crescere dei figli e cercare di dare a se stessi la possibilità di conoscere e fare esperienze sempre nuove. Impegnati negli anni a lasciare spazio ad amici, a piccoli viaggi, in un continuo progettare e pensare miglioramenti per sé e per i figli. Quando lui si ammala è lei, sebbene con problemi cardiaci anche di non poco conto, che si occupa del marito. Riesce a prendere in mano anche quelle pratiche di cui negli anni si era occupato prevalentemente Oreste. I figli in questa situazione nuova e difficile sono molto importanti per entrambi ma non essenziali. Nei confronti di questi ultimi cercano di attivare una forma di riconoscimento e rispetto delle vite individuali (sono due professionisti, uno con due figli, l’altra senza). Sono proprio Francesca ed Oreste che si rivolgono alla psicoterapia perché Oreste è entrato in una forma depressiva; non sente di poter portare avanti tutti i progetti che aveva fatto con Francesca; percepisce che la moglie possa non volerlo più: le tenerezze e le sollecitazioni sessuali tra di loro sono calate. Temono entrambi che stia accadendo qualcosa che sta sfuggendo loro di mano. Hanno fondamentalmente entrambi la convinzione che non debbano pensarsi finiti, vogliono un aiuto dalla terapia affinchè ritrovino la loro dimensione complice ed intima.
Persone autonome e attente ai propri bisogni anche se consapevoli degli inevitabili limiti dell’età.
Dott.ssa Stefania Martina – Psicologa e Psicoterapeuta familiare
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